Come il “remote” working può diventare davvero “smart”
La seconda ondata della pandemia ha prolungato la durata dello smart working allontanando, in particolare in alcune aree d’Italia, la prospettiva di un rientro fisico a pieno regime per tutti i dipendenti. Sono comunque molte le aziende che, negli ultimi mesi, hanno disposto un ritorno in presenza parziale e facoltativo, adeguandosi alle norme di sicurezza. Alla luce di queste nuove considerazioni, si è svolta la seconda fase della ricerca “Le modalità lavorative dopo il lock down: quale Smart Working?” di ANRA, Associazione Nazionale dei Risk Manager, e Aon, volta a indagare, dopo la prima survey di marzo, come sia cambiato il rapporto con lo smart working rispetto al periodo di lock down e fotografando il nuovo approccio del tessuto imprenditoriale italiano alle modalità di lavoro alternativo.
Sul piano pratico, che ha visto rientrare in modo prevalente in sede solo il 16% dei lavoratori, gli italiani hanno apprezzato i vantaggi di una maggiore flessibilità lavorativa: potendo scegliere, il 58% dei lavoratori bilancerebbe durante la settimana giornate in ufficio e lavoro da remoto, con una leggera prevalenza del secondo. Pianificazione, gestione e controllo delle attività a distanza sembrano non costituire più una grande difficoltà: se durante il lock down erano al primo posto delle preoccupazioni dei rispondenti, con il 33%, ora il dato è dimezzato. Ulteriormente smentiti anche i problemi di produttività, che passano dal sesto al nono posto. Il campione maschile sostiene inoltre, in misura doppia rispetto a quello femminile, che la propria azienda sia stata impattata in maniera importante dalle problematiche nei rapporti con clienti o terze parti: ne è convinta una percentuale di uomini quasi doppia rispetto alle donne.
Permangono, invece, talvolta rafforzate, alcune criticità individuate ad aprile: quelle organizzative e/o di comunicazione interna, e quelle relative allo stato d’animo e ingaggio dei lavoratori, entrambi risaliti in classifica rispetto alla prima indagine. Proprio le fasce più giovani, insieme alle donne, sono risultate le più sensibili a questi aspetti, con una percentuale maggiore rispetto al campione generale. I dati indicano dunque come la modalità di lavoro da remoto, se da un lato ha superato con successo le iniziali difficoltà pratiche e organizzative, a lungo andare mostri invece criticità nelle modalità di comunicazione e negli aspetti più psicologici e relazionali.
È interessante notare come questi dati cambino profondamente in base alle fasce d’età e al genere. Poco più del 30% degli over 56 tra maggio e settembre ha continuare a lavorare da casa, contro il 60% degli under 35: questo è probabilmente dovuto al fatto che è stato preferito e facilitato il rientro in azienda delle figure chiave e/o apicali, che il più delle volte coincidono con professionisti più maturi. E se più di un giovane su dieci sceglierebbe di lavorare sempre e solo da remoto, la proporzione si inverte tra gli over 56, che invece preferirebbero dove possibile tornare alla scrivania.
Per quanto riguarda lo spaccato di genere, tra maggio e settembre più della metà del campione femminile ha lavorato a distanza, situazione in cui si è invece trovato poco più di un professionista uomo su tre. È forse una conseguenza di questa disparità anche il fatto che sono proprio le donne ad affermare di poter svolgere in remoto una quantità maggiore del proprio lavoro, contro il 65% degli uomini.
Tra maggio e settembre, con la possibilità per la maggior parte dei lavoratori di alternare le due modalità lavorative, la percezione dei vantaggi della propria condizione è rimasta pressoché invariata: al primo posto la possibilità di costruire un migliore equilibrio tra vita privata e professionale, beneficio principale evidenziato soprattutto dalle fasce più giovani e in particolare dagli under 35. Seguono l’ottimizzazione del tempo e la possibilità di gestire con più autonomia gli orari e i carichi di lavoro, un aspetto sottolineato più dagli over 56 e dal campione maschile, e probabilmente frutto di una visione più pragmatica dell’attività lavorativa. Per gli under 35, inoltre, è stato poi molto rilevante il risparmio economico, al secondo posto con il 44%. Un aspetto la cui importanza è stata sottolineata anche dal genere femminile.
È interessante notare come, in generale, gli uomini abbiano dato risposte orientate primariamente agli aspetti professionali e pragmatici, della quotidianità, mentre le donne abbiano assegnato più rilevanza all’ambito organizzativo/gestionale e al bilanciamento tra vita familiare e lavorativa: per una rispondente su tre una delle conseguenze positive del remote working è stato il minore stress. Le donne hanno inoltre riscontrato maggiore facilità di concentrazione sul lavoro, in misura doppia rispetto ai colleghi.
Come nella prima indagine, al primo posto dei risvolti negativi si trova la difficoltà nel limitare le ore trascorse al lavoro, tuttavia la percentuale di chi lo ha indicato come la problematica principale è diminuita sensibilmente, passando dal 58% al 39%. Verosimilmente, si trattava di un aspetto molto meno gestibile durante il lock down, dove la possibilità di dedicare tempo ad altre attività era stata sostanzialmente annullata e dunque i tempi dedicati al lavoro prolungati ad oltranza. Al secondo e terzo posto si trovano le difficoltà di interazione e confronto con il team di lavoro e/o con i colleghi e il senso di solitudine, entrambi risaliti di una posizione rispetto alla prima indagine.
Guardando alle fasce d’età e al genere, lo scenario si fa più variegato: la limitazione delle ore di lavoro è al primo posto delle difficoltà per i lavoratori tra i 36 e i 55 anni e per il campione femminile, mentre, per gli under 35 a pesare maggiormente sono la solitudine e il poco contatto con i colleghi. Gli over 56 mettono invece al vertice le difficoltà di interazione con i colleghi, un risultato molto simile a quello registrato nel campione maschile.
Secondo i dati raccolti da ANRA e Aon, il genere femminile e il cluster degli under 35 condividono su molti aspetti la stessa visione. I due gruppi presentano diverse analogie, dalla maggiore attenzione per i risvolti sociali e psicologici, alla poca fiducia dimostrata nella capacità di evoluzione delle imprese, fino alla convinzione che lo smart working porterà benefici alla società nel suo complesso.
La ragione è probabilmente da ricercarsi parallelamente in una visione più comunitaria e meno individualista della situazione, e in parte nella comune situazione di svantaggio da cui queste due categorie si trovavano già prima della pandemia nel mercato del lavoro, il che li rende anche più esposti ai futuri impatti negativi del Covid-19 sull’occupazione e sulle possibilità di carriera.
“Per essere competitivi nello scenario odierno, così mutevole e dinamico, è necessario un cambiamento culturale più profondo, adattarvisi non basta più. La fiducia che le nuove generazioni e le rappresentanze femminili ripongono negli impatti positivi di una rivoluzione smart ha come contropartita una disillusione nei confronti delle organizzazioni, associata alla ritrosia culturale del top management”, commenta Gabriella Fraire, Consigliera ANRA, ”Cultura e leadership rappresentano due facce della stessa medaglia: il leader è colui che crea, diffonde e gestisce la cultura di un’organizzazione ma rappresenta anche il principale ostacolo al cambiamento, poiché tende alla conservazione dello status quo, per via della sua natura pervasiva. E se da una parte questo è il segnale di una generazione più propensa a mettere in secondo piano gli impatti negativi individuali in nome di un bene collettivo per una prospettiva futura più sostenibile, dall’altra parte le imprese si trovano a dover lottare con le implicazioni psicologiche e i risvolti culturali che ne derivano.”.
Tuttavia, donne e giovani sono anche quelli che sembrano possedere tutte le caratteristiche che si stanno rivelando indispensabili per completare una vera transizione allo smart working: capacità organizzative e gestionali, attenzione al benessere del lavoratore, spinta alla sostenibilità dell’ambiente di lavoro e dell’azienda.
Chiamati a fare una previsione sulle modalità di gestione delle risorse, in un orizzonte temporale di 6 e 18 mesi, più della metà dei rispondenti prevede di continuare a lavorare in modalità mista, e solo uno su quattro ipotizza un completo rientro: queste previsioni tuttavia diventano meno probabili man mano che si intensifica la seconda ondata pandemica, dal momento che la scelta di mantenere una prevalenza di remote working dipenderà in larga parte, secondo i rispondenti, dalla volontà di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori. Il graduale rientro in sede, invece, nel 48% dei casi viene attribuito alla generale ritrosia culturale del top management, una percentuale che sale al 65% negli under 35.
“La tecnologia non aspira a spersonalizzare il lavoro, ma si potenzia con l’interpretazione della componente umana, ovvero di lavoratori competenti, motivati e flessibili” sottolinea Enrico Vanin, AD Aon “Credo si andrà via via verso una Leadership Collaborativa, che abolirà statici ruoli e gerarchie e sarà in grado di perseguire risultati ambiziosi per l’azienda e la comunità in cui opera. I leader di domani dovranno essere adattabili e proattivi al cambiamento, curiosi di sperimentare l’inedito e dotati di social intelligence. Quest’ultima skill permette di ascoltare empaticamente le persone con cui si lavora, di sostenerle e spingerle ad esprimere il loro pieno potenziale”.
Nonostante il 72% sia convinto che questa evoluzione lavorativa avrà conseguenze prevalentemente positive, il 20% degli under 35 ritiene che da qui a sei mesi si tornerà alle modalità di lavoro tradizionali e ampliando l’orizzonte temporale ai 18 mesi la percentuale sale al 27%. Molto diversa è l’opinione degli over 56: solo il 10% di loro ritiene che la modalità in presenza tornerà ad essere quella principale, ed evidenzia che la scelta di riportare i dipendenti in azienda sarà dettata da concrete esigenze operative. Sono inoltre più cauti nel valutare gli impatti del lavoro da remoto: solo il 47% è infatti sicuro che il suo impatto sarà solamente positivo.
Gli uomini sostengono come valida spinta al mantenimento del lavoro a distanza l’aumento della produttività che invece sembra non aver alcun peso secondo le donne. Le rispondenti, invece, sottolineano come importanti il maggior benessere dei dipendenti.
“Siamo particolarmente fieri del lavoro svolto nel realizzare questa ricerca unica nel suo genere, che ha come obiettivo quello di approfondire come stia reagendo la filiera del risk ed insurance management ad una trasformazione epocale delle modalità di lavoro ed interazione fino a poco tempo fa inimmaginabili”, conclude Alessandro De Felice, Presidente ANRA, “La nostra community, composta da Risk Manager, intermediari, Assicuratori, Periti ed imprenditori ha mostrato una capacità di adattamento molto rapida, seppur con i limiti e le problematiche che analizziamo, e vede un futuro in cui è in grado di selezionare gli aspetti positivi del ‘remote working’ – quali ad esempio l’accelerazione nell’utilizzo delle tecnologie di connessione remota e la gestione del proprio tempo e responsabilità in autonomia – per realizzare un vero ‘smart working’ nella dimensione della nuova normalità.