Secondo il Global Digital Report 2019 i siti internet sono oggi oltre 1,7 miliardi. Quasi 55 milioni di italiani navigano per ore tra la lettura delle notizie, la consultazione dei profili social, l’aggiornamento dei blog o la ricerca di beni e servizi da acquistare. Le pagine internet disponibili in rete sono tra loro molto diverse: cambiano i colori delle scritte e dello sfondo, la grandezza e il tipo di carattere, l’impaginazione o la quantità di testo impiegato. Una grande flessibilità di aspetto che però non sempre aiuta l’utente a capire bene le informazioni. Anche perché leggere su un monitor o su un telefono può essere più faticoso che leggere su carta. Come si fa a rendere le pagine web più leggibili? Come adattarne l’aspetto a diverse categorie di utenti facilitando l’accesso, ad esempio alle persone con dislessia?
Uno studio dell’Università di Trento, svolto in collaborazione con l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e pubblicato su “Scientific Reports”, mostra come alcuni elementi in una pagina web possano davvero fare la differenza e offre le linee guida per costruire pagine web più inclusive. Tra gli elementi che migliorano la leggibilità, quattro quelli principali:
Lo studio ha analizzato testi con caratteri che variavano da 10 a 18 punti di dimensione. Maggiore è il carattere, più leggibile è il testo.
Lo studio ha preso in esame testi con interlinea che variava da uno spazio grande quanto il carattere a uno spazio grande circa il doppio. Maggiore è l’interlinea, più il testo è leggibile.
L’uso di questi e altri accorgimenti rende i contenuti accessibili anche a persone con dislessia, non solo in caso di bambini o ragazzi, ma anche nel caso degli adulti. Gli stessi elementi potrebbero rivelarsi utili, del resto, anche per le persone anziane.
Il gruppo di ricerca, coordinato dal ricercatore Michele Scaltritti del Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive dell’Università di Trento e dal ricercatore Simone Sulpizio, dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano ha realizzato una serie di esperimenti coinvolgendo un’ottantina di partecipanti, adulti e ragazzi delle scuole medie. Tra loro, sia lettori tipici sia lettori con dislessia. Ai partecipanti è stato richiesto di leggere alcune pagine internet selezionate dal web, eterogenee per aspetto e per caratteristiche tipografiche. Durante la lettura sono stati registrati i loro movimenti oculari. I risultati di questa analisi mostrano che diverse caratteristiche tipografiche influenzano la leggibilità dei testi. L’allineamento del testo o l’utilizzo di intestazioni sono elementi che, ad esempio, possono aiutare tutti i tipi di lettori. La larghezza delle colonne o la quantità di testo nella pagina invece hanno effetti specifici a seconda del tipo di lettore. Altri elementi ancora – come il tipo di font utilizzato, l’uso di evidenziazioni come il grassetto o il corsivo, oppure l’uso di un forte contrasto testo/sfondo – non risultano aver alcun impatto sulla leggibilità dei testi.
In generale lo studio indica che la semplice manipolazione di alcune caratteristiche dell’aspetto delle pagine internet – un’operazione semplice ed economica – può essere sufficiente per migliorare la leggibilità dei testi. Un miglioramento che è spesso riscontrabile in tipologie di lettori diverse: più o meno esperti, tipici o con dislessia. Ecco perché l’applicazione di tali migliorie può contribuire alla realizzazione di testi più inclusivi, più accessibili a tutti gli utenti. Le raccomandazioni contenute nello studio sono particolarmente utili a chi compila le linee guida per l’accessibilità dei contenuti web e a chi realizza testi digitali.
Lo studio, che è durato alcuni anni, è stato coordinato dal Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive dell’Università di Trento con la collaborazione Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione dell’Ateneo trentino, della Fondazione Marica De Vincenzi ONLUS, della Facoltà di Scienze e Tecnologie Informatiche dell’Università di Bolzano, della Facoltà di Psicologia e del Centro di Neurolinguistica e Psicolinguistica dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Lo studio è stato finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto.