A fine marzo il Ministero del Lavoro e la Banca d’Italia hanno pubblicato una nota congiunta nella quale evidenziano come, in un anno di CoViD, l’occupazione da lavoro dipendente e regolare abbia sostanzialmente “ristagnato”, cioè a dire che il saldo (purtroppo negativo) fra le posizioni di lavoro attivate e quelle cessate è rimasto immodificato da febbraio 2020 a febbraio 2021. Il che, a prima vista, potrebbe anche apparire un dato confortante: è come se il mercato del lavoro avesse retto il colpo della pandemia; salvo considerare che, se si guarda il dato all’interno dell’anno considerato, sono stati creati 300mila posti di lavoro in meno rispetto al periodo precedente (con un picco a -600mila a giugno 2020).

Comunque, il “risultato” della stagnazione (per dirla con l’economia) dell’occupazione in luogo di una sua recessione è stato probabilmente “drogato” dai provvedimenti normativi che l’Italia ha adottato per il mercato del lavoro nel far fronte all’emergenza pandemica: primo fra tutti il cosiddetto “blocco dei licenziamenti” per motivi oggettivi (organizzativi o economici) messo “in fase” con il potenziamento dell’integrazione salariale (cassa integrazione, fondi di solidarietà, ecc.).

La soluzione italiana è stata unica nel panorama dei principali Paesi del continente Europeo: Germania, Francia, Inghilterra, per capirci, si sono limitati a potenziare o innovare i loro sistemi di integrazione salariale per sostenere il reddito dei lavoratori (e quindi quello delle imprese consentendogli di non pagare interamente le retribuzioni); ma solo l’Italia a questo ha aggiunto il blocco dei licenziamenti; il raffronto è, quindi, fra un approccio regolatore di mercato che affida comunque alla capacità produttiva aziendale il superamento dell’emergenza e un approccio protezionistico che il mercato occupazionale lo appiattisce.

Per capire che cosa succederà nei prossimi mesi abbiamo intervistato il professore Felice Testa, docente di Diritto del Lavoro all’Università Europea di Roma.

Quali sono le previsioni dopo lo sblocco dei licenziamenti?

Dopo il termine effettivo del blocco dei licenziamenti (in verità già oggi se si è esaurita la possibilità di ricorrere alla cosiddetta causale CoViD dell’integrazione salariale si può licenziare per motivi organizzativi o economici) anche l’Italia tornerà in un contesto di concorrenza occupazionale che sarà regolato solo dall’ammortizzazione sociale. Non è detto che questo comporti il dilagare dei licenziamenti, un’azienda ha sempre concrete remore a dismettere il personale perché il più delle volte su quello ha investito risorse e dallo stesso ha acquisito ricchezza in professionalità e, quindi, produttività; piuttosto resterà un forte freno alla creazione di nuovi posti di lavoro. Molto dovrà fare il sistema di ammortizzatori sociali che non potrà essere limitato al sostegno al reddito ma correggere la rotta verso l’occupabilità delle persone (l’inoccupabilità, l’obsolescenza delle competenze sono la causa “intima” della disoccupazione) sostenendo la formazione e i percorsi di inserimento formativo/lavorativo. Una particolare attenzione, mai da ultimo, dovrà poi essere dedicata alla disoccupazione femminile: la pandemia ha dimostrato ancora una volta come il lavoro di cura delle donne in famiglia sia il freno sociale per le donne anziché l’esaltazione delle peculiarità femminili. Una ammortizzazione sociale dedicata che riconosca le diverse esigenze di sostegno fra uomo e donna nel mondo del lavoro è quanto mai urgente.

Il mercato del lavoro sta subendo un’evoluzione veloce: quali sono i trend più interessanti?

La pandemia ha catalizzato e accelerato il processo di selezione delle nuove soluzioni di impatto organizzativo e sociale nel mondo dell’impresa e del lavoro che in questa si inserisce. Parlo della nuova velocità che ha apportato ad esempio all’impiego delle tecnologie digitali e alla transizione ecologica e sostenibile. Questo in verità era un processo già avviato dall’Unione Europea poco prima del Covid con ingenti stanziamenti ma ha resistito, anzi ha trovato impulso vitale dal virus letale (passatemi l’ossimoro): il piano di resilienza e rilancio della UE (Next Generation EU) si svolge proprio lungo questi due binari, digitale e sostenibilità. Riterrei, quindi, che le professionalità emergenti saranno, nel breve/medio periodo, proprio quelle che sapranno dare risposta a questi orientamenti della nuova economia. E saranno anche le più interessanti trattandosi, soprattutto il secondo, di campi ancora in larga parte da arare nel concreto facendo fiorire nuovi ruoli e ripartizioni funzionali fra gli stessi all’interno dell’organizzazione del lavoro delle imprese che vorranno trarre opportunità dall’indirizzo europeo.

Quali le figure più cercate dei prossimi anni?

Ritengo siano quelle connesse all’evoluzione digitale e sostenibile, quindi esperti in intelligenza artificiale e automazione dell’impresa. Ma non credo si possano metter in secondo piano professionalità già emergenti ed ora velocemente considerate come addirittura tradizionali quali quelle nel campo della comunicazione, soprattutto pubblicitaria e di valorizzazione dei brand. Ma resterà sempre un professional evergreen, a mio avviso colui che abbia la capacità di vedere insieme l’evoluzione di tutte queste novità e quindi trarne strategia; solo chi avrà una preparazione d’insieme dei fondamenti dell’agire umano potrà ambire a tanto. Percorsi di studi di carattere fondante e apparentemente fuori questi settori (studi filosofici, sociologici, giuridici, psicologici, umanistici in generale) dovranno essere valorizzati dalle università e dagli studenti perché continueranno ad essere quelli che formano le persone per farne professionisti e non solo specialisti conclusi nello spazio della visuale di un solo ambito.

In generale, come sarà il mondo del lavoro post pandemico?

Su questa domanda permettetemi prima una considerazione pre-giuridica: dopo il Covid le rappresentazioni della società credo si orienteranno a dividerla fra chi crederà di aver perso quanto gli dava stimolo per andare avanti e, quindi, si sentirà giustificato a rinunciare, e chi, invece, crederà di essersi arricchito di insegnamenti valoriali e, quindi, si sentirà nel dovere di ripartire da basi diverse.

Non sappiamo quanto tempo saremo ancora dentro questa pandemia, probabilmente almeno un anno e mezzo se non due (considerate il probabile effetto di rimbalzo della necessaria ed irrinunciabile ripresa delle connessioni globali che, se da un lato aiuteranno l’economia, dall’altro aiuteranno anche il virus proveniente dai Paesi meno organizzati nei piani vaccinali e, soprattutto, i cui dati di diffusione del contagio non sono oggettivamente misurabili, e mettete ciò insieme all’altrettanto irrinunciabile irreversibilità delle riaperture).

Ad ogni modo, per quanto veloci siano le trasformazioni tecnologiche che impattano sull’organizzazione del lavoro, tre o quattro anni è comunque un periodo troppo breve per incidere stabilmente su un fenomeno culturale qual è il lavoro: culturale, sì, perché è un fatto dell’umanità il lavoro, è l’esprimersi dell’uomo nella società e per la società che apporta stabili modificazioni dopo che una certa tendenza e caratteristica di quell’esprimersi si è storicizzata.

Ora, sia che ci si abbatta, sia che ci si scuota nel ripartire, quello che è culturalmente stabile del mondo del lavoro tornerà a prevalere perché rappresenta l’essenza del lavoro, la pandemia sarà stata un’esperienza di quel mondo, un suo accidente, per così dire, che al più potrà qualificare in qualche modo quell’essenza ma non potrà (essenzialmente) modificarla.

Così, considerando che ciò che è pre-giuridico non per questo e non-giuridico, la legge tornerà ad occuparsi, nel caratterizzare il mondo del lavoro, della tutela della posizione della persona che lavora, vera essenza storicizzata del diritto del lavoro; quell’impegno di tutela tornerà ad essere il perno sul quale, in generale, ruota il mondo del lavoro organizzato dalla legge e questa esperienza pandemica apporterà, si auspica, un ampliamento dell’orbita di rotazione della tutela: la riduzione della disparità del sistema di protezione sociale fra chi è dentro (insiders) e chi è fuori  (outsiders) il mondo del lavoro che la pandemia ha evidenziato ancor più di quanto non ve ne fosse bisogno. Considerare con pari dignità di protezione insiders e outsiders non è, si badi, (aprioristico) universalismo di tutele (quale pare vada di moda negli ambienti di chi consiglia le politiche del diritto), anzi è distinguere per tutelare, effettivamente.


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